I diritti politici nella Costituzione della Repubblica napoletana (1799)

AutorDario Ippolito
Páginas99-109

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I Introduzione

Nel panorama costituzionale degli Stati italiani conquistati dagli eserciti della Francia rivoluzionaria, il caso della Repubblica napoletana presenta – com’è noto – tratti di indubbia e rilevante originalità. Laddove le Costituzioni delle altre Repubbliche della Penisola ricalcano pressoché pedissequamente il modello francese dell’anno III, il Progetto di Costituzione presentato nell’aprile del 1799 dal Comitato di legislazione1 (e mai approvato dal Governo provvisorio napoletano) se ne discosta sotto numerosi profili, introducendo variazioni normative e innovazioni istituzionali, rivelatrici di una cultura politica tanto

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aperta e ricettiva nei confronti delle esperienze rivoluzionarie tardosettecentesche quanto radicata nell’illuminismo giuspolitico meridionale.

Emblematica, da questo punto di vista, è la proposta di istituzione di un “tribunale supremo”, incaricato della “custodia della costituzione e della libertà”2 , dietro cui è possibile scorgere, da un lato, il postulato assiologico, tipico del giusnaturalismo illuministico, del primato costituzionale dei diritti fondamentali, dall’altro, l’attenzione feconda alle soluzioni istituzionali ideate oltreoceano. Su questo macroscopico elemento discretivo del progetto di Costituzione della Repubblica napoletana rispetto all’impostazione legicentrica delle Costituzioni francesi, la storiografia italiana ha insistito molto – e molto opportunamente – nell’ultimo decennio3 . Minor interesse, invece, hanno suscitato altri peculiari e meno appariscenti aspetti del testo licenziato dal Comitato di legislazione, che pure meritano di essere approfonditi e discussi, tanto più adesso che Federica Morelli e Antonio Trampus hanno messo a disposizione degli studiosi un'eccellente edizione critica del Progetto.

Il presente studio – sviluppato a partire da una relazione presentata e discussa all'interno del workshop “The rise of democracy in Italy:1750-1850”, tenutosi presso l'Università di Pisa nell'aprile 20104 – propone un'analisi, un'interpretazione e un tentativo di comprensione storica della disciplina dei diritti politici delineata dai costituenti napoletani, sotto la guida di Mario Pagano5 .

II Cittadinanza e diritti politici

In via preliminare, è interessante notare che, tra tutte le Costituzioni del Triennio repubblicano (1796-1799)6 – e, si può aggiungere, tra tutte le Costituzioni della Rivoluzione francese (1791, 1793, 1795) –, quella napoletana è la sola in cui compaia, declinato in forma di avverbio, il termine democrazia: “Se taluno vivrà poco democraticamente – recita l’art. 314, sotto la rubrica “Della censura” – cioè da dissoluto e voluttuoso, darà una cattiva educazione alla sua famiglia, userà de’ modi superbi ed insolenti e contro l’uguaglianza, sarà da’ censori privato del dritto attivo o passivo di cittadinanza, secondo la

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sua colpa”7 .

Nel linguaggio dei redattori del Progetto l’espressione “dritto attivo o passivo di cittadinanza” non ha nulla a che vedere, nonostante l’assonanza, con la distinzione tra “cittadini passivi” (titolari dei soli diritti civili) e “cittadini attivi” (titolari altresì dei diritti politici), concepita da Sieyès nell’89 e recepita nella Costituzione del ’918 . Come nella Costituzione termidoriana, così nel testo napoletano, questa dicotomia della cittadinanza scompare, perché i soggetti privi di diritti politici non sono “cittadini”: sono “non cittadini”. “Cittadinanza”, infatti, è il nome dello status di chi possiede la capacità politica. Le persone di nazionalità napoletana escluse da tale status sono designate – sub art. 7 – come “naturali”9 .

Con “dritto attivo o passivo di cittadinanza”, la disposizione costituzionale designa i diritti di elettorato attivo e passivo, cioè i diritti di voto e di eleggibilità, come si evince dal contesto normativo e come rende esplicito il Rapporto del Comitato di legislazione che precede il Progetto di Costituzione10 : “Il diritto passivo di ogni cittadino è, secondo la nostra veduta, ipotetico, vale a dire che ogni cittadino, posto che rendasi abile, acquista il dritto alle cariche pubbliche. Un tal dritto si risolve nella facoltà di acquistare il dritto di eleggibilità”11 .

Consiste dunque nella privazione dei diritti elettorali – secondo modalità calibrate in ragione della gravità della colpa – l’effetto della sanzione censoria di chi vive “poco democraticamente” (cioè da “voluttuoso”, “dissoluto”, “superbo” etc.).

III La democrazia secondo I repubblicani

L’espressione “vivere democratico” ritorna, sotto la penna dei “costituenti”, proprio là dove il Rapporto dà conto delle competenze giurisdizionali e degli attributi potestativi del “tribunale di censura”, la cui introduzione, sull’esempio delle “antiche repubbliche”, è ritenuta necessaria per “emendare i costumi, correggendo i vizi”12 . Infatti, “una vita soverchiamente voluttuosa, una sregolata condotta tenuta nel governo della propria famiglia, costumi superbi ed insolenti mal si confanno col vivere democratico e scavano insensibilmente una voragine

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nella quale presto o tardi corre a precipitarsi la libertà”13 .

Tanto questa occorrenza in forma aggettivale del termine ‘democrazia’, quanto la sua declinazione avverbiale presente nel testo costituzionale, evocano sinteticamente, per contrasto con atteggiamenti e inclinazioni esplicitamente stigmatizzati, una deontologia e un universo di valori: sobrietà, moderazione, rettitudine, amore dell’uguaglianza, in assenza dei quali – secondo le vedute dei patrioti napoletani – una Repubblica non è in grado di sopravvivere. Il “vivere democratico”, in altre parole, è lo stile di vita conforme allo “spirito repubblicano”14 , che deve pervadere la società a partire dai rapporti privati e familiari tra i suoi membri.

Con tutta evidenza, le derivazioni della parola ‘democrazia’ sono impiegate qui con un’accezione eulogica e positiva. Va sottolineato, però, che tale accezione riguarda un concetto di democrazia sostanziato di connotati prettamente morali, attinenti alla sfera dei costumi. Si tratta di una puntualizzazione necessaria, poiché nel Rapporto sul Progetto di Costituzione, oltre all’avverbio e all’aggettivo, compare anche il sostantivo ‘democrazia’, che è usato, diversamente dai suoi termini derivativi, secondo il suo significato politico, tradizionale, di forma di governo. Mutato il campo semantico denotato dalla parola, muta il segno di valore associato alla cosa. L’adesione alla morale democratica si converte in diffidente presa di distanze rispetto al regime democratico.

“Nelle democrazie un uomo dell’infima plebe armar può la sua mano de’ fasci consolari, quando abbia valor di un Mario ed abbia i lumi di un Tullio. Ma un ignorante venditor di salumi, che vien proposto al governo di Atene, necessariamente perderà la repubblica”15 . Nonostante l’ambiguità dell’enunciato, la tesi è chiara: intesa come forma di governo fondata sull’uguaglianza politica, la democrazia è incompatibile con la sopravvivenza della repubblica. In linea di principio, gli autori del Progetto costituzionale sembrano ammettere “l’uguaglianza politica”; tuttavia si precipitano ad ammonire che essa “non deve far sì che venga promosso all’esercizio delle pubbliche funzioni colui che non ha i talenti per adempierle”16 . In caso contrario, l’ordine repubblicano periclita. La conseguenza pratica del ragionamento è che i diritti politici devono essere concessi esclusivamente a chi è capace di ben esercitarli. La salus rei publicae richiede dunque la positivizzazione giuridica di condizioni discriminanti di accesso alla cittadinanza17 .

IV “L’inclusione esclusiva”

“La storia della cittadinanza – ha scritto recentemente Enrico Gargiulo – è la storia di un percorso di inclusione esclusiva. […] Di questa storia l’esclusione è una cifra costante e non un tratto episodico”18 : cambiano i criteri di inclusione/esclusione, cambiano i soggetti inclusi/esclusi, ma non scompare

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mai la dimensione discriminatoria della cittadinanza, che oggi si configura come l’ultimo status privilegiato acquisito per nascita19 . Correlativamente, si può affermare che la storia della democrazia è una storia di lotte sociali contro l’esclusione dal recinto della cittadinanza, giuridicamente perimetrato dai requisiti che regolano la titolarità dei diritti politici20 .

La fondativa esperienza della Rivoluzione francese – con le sue ripercussioni europee – rivela in maniera emblematica i profili mutevoli di questo dispositivo giuridico dalla fisionomia ancipite. Osservando il processo rivoluzionario di demolizione e rifondazione dell’ordine statuale, si scorgono i caratteri antinomici di paradigmi della cittadinanza diventati improvvisamente concreti obiettivi di azione legislativa, a difesa dei quali si dispongono e si fronteggiano i diversi schieramenti politici: gli apologeti del “governo dei proprietari”, i sostenitori della rappresentanza su base contributiva, i partigiani del suffragio universale21 . Ai margini del campo di battaglia, si levano pure le voci eterodosse delle donne che denunciano il deficit democratico della “Rivoluzione dei diritti dell’uomo”22 .

Quando nel ’99 la rivoluzione raggiunge Napoli e rovescia la monarchia borbonica, istituendo come “Sovrano” (ex art. 2 Cost.) “l’universalità de’ cittadini”, il modello di cittadinanza adottato nella “costituzione della madre Repubblica francese” trapassa nel testo del Progetto napoletano. La neonata Repubblica è infatti uno Stato a sovranità limitata, la cui classe dirigente è ben consapevole della necessità “che da quella mano istessa da cui ha ricevuta la libertà”, la nazione napoletana debba ricevere anche “la legge, custode e conservatrice di quella”23 .

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