La decadenza dei deputati nella Camera del Regno d'Italia del 9 novembre 1926

AutorGiampiero Buonomo
Páginas697-715

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I L'aventino e la legge acerbo

Nella storia costituzionale italiana, la vicenda dell’Aventino si segnala per aver avuto origine ed aver avuto termine in una questione di composizione dell’organo parlamentare. Ai primordi, l’intervento coraggioso di Giacomo Matteotti - l'uomo che "dopo quel discorso, non dovrebbe più circolare"1 * Consigliere del Senato della Repubblica italiana

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avvenne in sede di contestazione della proposta di convalida dei seggi conseguiti dal listone fascista con brogli e violenze nelle elezioni politiche del 1924. Al crepuscolo, il 9 novembre 1926 fu approvato dalla Camera l’ordine del giorno di Augusto Turati, che decretava la decadenza dei deputati aventinisti e comunisti; il fascismo doveva consacrare in tal guisa, con una Camera monca anche dei subentranti, la fine dell’opposizione oramai sconfitta anche politicamente.

Certo, la ventisettesima legislatura della Camera regia (1924-1928) ebbe molteplici sfaccettature costituzionali, alcune - a ragione - giudicate più conferenti col nocciolo storico-politico dell’inabissamento delle istituzioni liberali nella dittatura fascista.

Il profilo immunitario, ad esempio, era implicito nella clausola di chiusura del sistema invocata alla Camera nella seduta del 3 gennaio 1925, quando Mussolini sfidò le opposizioni a deferirlo all'Alta Corte oppure a recedere dalla secessione2: lo colsero le opposizioni stesse, denunciando i limiti della procedura di cui all'articolo 47 dello Statuto albertino, in una contingenza di così grave manomissione degli equilibri istituzionali. La pretestuosità della sfida, già in ordine ad un'ipotetica messa in istato d'accusa da parte della Camera3, nella successiva primavera si sarebbe confermata con la prova della fedeltà del Senato regio4: eppure proprio il fantasma dell'Alta Corte potrebbe aver esercitato un ruolo, nella decisione del duce di imprimere una svolta alla crisi con il discorso dell' "a me il palo e la corda"5. Ma, per ridimensionare la sua

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responsabilità personale, Mussolini doveva ricorrere soprattutto all’artificio retorico di incorporare, nella sua persona, la Storia che cammina: una rivendicazione innanzi tutto di primazia verso Balbo e gli altri gerarchi6.

Reclamando su di sé la responsabilità politica del delitto, il capo del fascismo compiva un passo decisivo verso la trasformazione dell’ordinamento costituzionale liberale nella dittatura: a fronte dei "fulgidi destini" che prometteva al Paese, riduceva a fatto di cronaca - meritevole di quella che poi fu la periferica trattazione processuale a Chieti - la morte di Matteotti, che da sette mesi aveva portato buona parte dei deputati dell'opposizione a disertare l'Aula di Montecitorio.

La chiave interpretativa dominante dell'intera vicenda, non v’è dubbio, è la forza: da una parte la sua minaccia del 16 novembre 1922 (“potevo fare di quest’aula…”) si andava materializzando con la circolare ai prefetti7; dall'altra parte la rivolta morale contro di essa, su cui Giovanni Amendola aveva chiamato il Paese dall’Aventino8. La sua nobile petizione di principio fuoriusciva dalle ruvide leggi della politica mediterranea, in cui il “fatto compiuto” dei governanti si afferma spesso nell’acquiescenza dei governati; acutamente descritte da Piero Gobetti9, le debolezze del ceto medio italiano facevano presagire il suo desiderio di “accomodarsi” nel promesso nuovo blocco sociale “corporativo” della dittatura, seppure con il sacrificio di qualche principio (nel quale, evidentemente, non si era mai veramente creduto).

Non saper valutare i rapporti di forza rappresenta, in politica, il più fatale degli errori: se ne ha netta la percezione quando ripetutamente, nel carteggio Turati-Kuliscioff, si sottolineò l’inerzia del Quirinale o, peggio, quando si fu costretti a stralciare - da una bozza di comunicato degli aventiniani - la richiesta

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al re di sciogliere la Camera10. Già in questo si può notare come la legge Acerbo condannasse ad una sconfitta ancor più certa la minoranza parlamentare: le elezioni del 1924 avevano già consumato il passaggio fondamentale nel processo di scardinamento delle istituzioni liberali, essendo stato l'atto "con il quale la vecchia classe dirigente, consegnando la maggioranza parlamentare a una forza politica decisa a sovvertire il vecchio sistema, lasciò aperta la strada alla costruzione della dittatura e firmò al tempo stesso la sua sentenza di morte"11.

Perduta - con il voto sul premio di maggioranza nella XXVI legislatura12 la possibilità di costruirsi un ruolo di governo coalizionale, all'opposizione della successiva legislatura non restava che presidiare il diritto di tribuna: l'unica efficace misura da difendere, anche a dispetto dei tempi avversi. L’illusione che, disertando le aule parlamentari, si potesse dare l'immagine plastica di una dissociazione dalle scelte del Governo, discendeva da un’analisi in vitro delle opzioni possibili in un regime democratico, senza alcuna reale valutazione degli sviluppi liberticidi in atto sul terreno concreto della realtà. L’ultimo di tali sviluppi era, appunto, la gestione concreta delle vicende di composizione dell’organo parlamentare.

A differenza della prassi repubblicana, la Giunta delle elezioni della Camera era saldamente in mano ad un componente del listone vincitore delle elezioni del 1924: prima quell’Antonio Casertano che aveva cercato invano di interrompere la vibrante denuncia di Matteotti, nella seduta dell’Assemblea del 30 maggio 1924. Poi13 direttamente il segretario del partito nazionale fascista Roberto Farinacci, sotto la cui presidenza si ebbe la deliberazione della Giunta delle elezioni del 2 novembre 1925 che negava che il seggio potesse passare a candidati della medesima lista, in tutti i casi in cui si fosse reso vacante in corso di legislatura. Si trattava di un’evidente interpretatio derogans della legge elettorale14, alla quale pure si ammetteva un’eccezione, per il caso di decesso del titolare: ma lo stesso Casertano vi derogò, non attivando le procedure di subentro nel seggio di Giovanni Amendola, deceduto in corso di mandato il 7 aprile 1926 a Cannes per le percosse inflittegli dai fascisti a Serravalle Pistoiese15. A questo, la nuova configurazione ordinamentale aveva portato

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l'antica tradizione forense di cui Casertano era espressione: una configurazione al centro della quale si poneva la legge elettorale Acerbo, con cui quel personale politico era stato selezionato con l'unica missione di apprestare in Parlamento una maggioranza fascista, del tutto subalterna al partito dominante ed al suo capo16.

Anche Paesi di antica tradizione politica hanno subito l’onta del Rump Parliament, il moncherino di Parlamento che governa senza subentri nei seggi resisi vacanti, senza alcuna vera funzione che non sia quella di acclamare Cromwell. In tali casi, anche il diritto – ed il ceto chiamato ad interpretarlo – fa la sua parte: ma è tutto il sistema dei poteri che cede, in una temperie così difficile, perché gravida di pulsioni conformistiche. Non la dialettica tra i manifesti contrapposti degli intellettuali, ma l'esercizio della funzione pubblica di controllo poteva offrire quella visibilità che le divisioni dell'Aventino irrimediabilmente pregiudicavano.

Era allora in Parlamento che andava cercata la sede pubblica per la denuncia del regime: lo conferma il fatto che, dopo il fallito tentativo17 di rientro in Aula del 16 gennaio 1926, le condizioni vessatorie dettate da Mussolini per la "riammissione" sembrarono bastevoli per prescindere dalla stessa esistenza degli aventinisti. La questione affacciata nell'autunno - la necessità di una serie di provvedimenti "per la difesa dello Stato", che comprendessero la pena capitale, vieppiù dopo il fallito attentato del 31 ottobre 1926 - produsse l'eccesso dei soliti zelanti del regime e, probabilmente, in questo senso va letto l’articolo di Farinacci sul Tevere del 6 novembre 1926: vi si avanzava la richiesta di espulsione anche de jure dei deputati aventinisti, ma – dopo la sua pubblicazione – per tre giorni nessuno sentì il bisogno di integrare l’ordine del giorno, diramato per la seduta d’Assemblea.

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II Il “diciotto brumaio” di mussolini

Un fatto procedurale è innegabile: alla sua apertura delle ore 16, la seduta del 9 novembre 1926 non recava, sull’ordine del giorno stampato e distribuito, alcuna questione di composizione della Camera e, men che mai, alcuna mozione di decadenza18. Dopo le allocuzioni introduttive, il presidente Casertano annunciò che il deputato Augusto Turati aveva presentato la famigerata mozione, il cui testo recitava: «La Camera, considerato che i deputati sotto nominati nel giugno del 1924, pretestando una questione morale nei confronti del Capo del Governo e di questa Assemblea fecero atto esplicito e pubblico di secessione; considerato che tali deputati continuarono a svolgere, da allora ad oggi, usando delle prerogative e delle immunità parlamentari, opera di eccitamento contro i poteri dello Stato; ritenendo che essi siano venuti meno alla prescrizione precisa dell'articolo 49 dello Statuto: quella di esercitare la funzione di deputati col solo scopo del bene inseparabile del Re e della Patria; dichiara tali deputati decaduti dal mandato parlamentare». La mozione si concludeva con l’elenco sia degli aventinisti che dei comunisti (per un totale di 123 nomi)19 ed era firmata da Augusto Turati, Farinacci, Starace, Renato Ricci, Vaccari, Limongelli, Leone, Ceci, Pierazzi, Chiostri ed Aldi-Mai20.

Trattandosi di un argomento che non era compreso all’ordine del giorno, l'articolo 62 del Regolamento della Camera imponeva che si deliberasse a maggioranza dei tre quarti il suo inserimento all'ordine del giorno. La prassi era nel senso che il quorum si calcolasse sui votanti: ma la questione era lungi dall’essere...

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