Difetto di discrezione di giudizio: questioni aperte

AutorPaolo Bianchi
Cargo del AutorVicario Judicial Regional de Lombardía Profesor invitado de las Pontificias Universidades Gregoriana y de la Santa Croce (Roma)
Páginas25-44

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Nella presente relazione, pur senza trascurare l’indicazione degli organizzatori di tener conto soprattutto dei difetti della volontà nella formazione del consenso matrimoniale, ho cercato soprattutto di evitare una esposizione puramente tralatizia e che dica di nuovo quanto è pacificamente acquisito in merito al difetto di discrezione di giudizio1; al contrario, ho cercato di isolare alcune questioni, che possano apparire maggiormente utili e idonee a suscitare la riflessione e la discussione.

Appare opportuno raccoglierle per così dire in unità tematiche.

1. Questioni di diritto sostanziale

Un problema che si pone, invero, per tutte le forme di incapacità psichica al matrimonio tipizzate dal can. 1095 è quello di distinguere la difficoltà dalla incapacità: il riferimento magisteriale più rilevante è quello delle allocuzioni

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pontificie del 1987, 1988 e 2009 alla Rota Romana –ma non solo esse2– le quali, al di là della loro esatta qualificazione formale3, restano delle indicazioni difficilmente preteribili. Una ulteriore e molto precisa indicazione in merito –proprio relativa al grave difetto di discrezione di giudizio– viene dalla allocuzione alla Rota Romana di Benedetto XVI per l’anno 2011, dove invita a distinguere fra incapacità di scelta e scelta imprudente4, che può essere compiuta anche da un soggetto capace, per superficialità, inganno, orgoglio, consapevole sottovalutazione delle difficoltà o dei segnali della non ragionevolezza della decisione. Ecco le parole del Papa emerito:

purtroppo permangono ancora posizioni non corrette, come quella di identificare la discrezione di giudizio richiesta per il matrimonio (cfr CIC, can. 1095, n. 2) con l’auspicata prudenza nella decisione di sposarsi, confondendo così una questione di capacità con un’altra che non intacca la validità, poiché concerne il grado di saggezza pratica con cui si è presa una decisione che è, comunque, veramente matrimoniale. Più grave ancora sarebbe il fraintendimento se si volesse attribuire efficacia invalidante alle scelte imprudenti compiute durante la vita matrimoniale5.

Ci si deve interrogare se vi siano possibilità per orientarsi nella alternativa, spesso molto sottile e problematica.

Una prima risorsa è quella –pur nella consapevolezza della distinzione fra il piano giuridico e quello clinico– di non separare in modo radicale il giudizio giuridico da quello clinico. Alla base di ogni forma di incapacità ci deve essere una seria forma di anomalia: ciò anche in senso clinico, anche se non solo in esso. Ad esempio di questa ultima affermazione, si pensi alla vicenda della omosessualità6, uscita progressivamente dall’ambito della clinica fino al punto di essere del tutto “normalizzata”, ma che dal punto di vista della antropologia

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cristiana resta indiscutibilmente una anomalia del soggetto. Quanto però intendo principalmente dire è che la distinzione fra piano clinico e piano giuridico non potrà trasformarsi in radicale separazione, come se potesse esistere un soggetto psichicamente incapace alle nozze dal punto di vista giuridico che, dal punto di vista clinico, sia sostanzialmente sano. Accennerò di nuovo a tale problematica.

Una seconda risorsa è quella che si può recepire dall’insegnamento sempre stimolante di Viladrich, ossia che alla base del difetto di discrezione di giudizio deve verificarsi una condizione abituale, non transitoria7. Quest’ultima sarà più facilmente alla base di un difetto di uso della ragione, come ad esempio in stati di intossicazione acuta da sostanze alcoliche o in genere tossiche, oppure di “plagio” da parte di altre persone.

Legato a quanto appena detto è da considerare però l’orientamento della giurisprudenza rotale8che comprende, nella valutazione del difetto di discrezione di giudizio, anche le circostanze esteriori che hanno accompagnato la vicenda esistenziale del soggetto. Si tratta di un insegnamento equilibrato, che ritiene che la anomalia di base del soggetto (magari da sé sola non così chiaramente incapacitante: si veda il tema spinoso della immaturità) possa essere amplificata ed aggravata nei suoi effetti da circostanze esteriori particolarmente stressanti, difficili, traumatizzanti. Si va nella linea di quanto si usava un tempo chiamare exturbatio mentis. Ad esempio in una decisione c.

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Pompedda del 25 novembre 1978, citata da una più recente c. Pinto del 25 maggio 20019, si afferma che:

“etiam extra verum morbum mentis, exstare possunt condiciones psychicas tam abnormes ut contrahentes habendi sint reapse deficientes debita iudicii discretione”.

Va peraltro tenuto presente che nella giurisprudenza rotale degli anni ’60 e ‘70’ del secolo XX il concetto di morbo (o malattia) mentale veniva inteso in senso proprio, ossia con riferimento a una patologia psichiatrica maggiore. Escludere tale fattispecie nosografica e fare riferimento a condizioni psichiche tam abnormes da risultare invalidanti significava ipotizzare che ragioni di carattere transitorio avessero privato il soggetto della sua capacità abituale di rapportarsi in modo equilibrato con la realtà circostante. Tuttavia, anche in ipotesi di questo genere, il presupposto per la dichiarazione della invalidità del consenso è che ci si trovi pur sempre di fronte a una forma di grave anomalia (che non può che appartenere al campo della patologia, per quanto in un senso più esteso rispetto ai disturbi psicotici), per quanto non connaturata in modo strutturale con la personalità del soggetto. In questo senso, ad esempio, si colloca la sentenza c. Boccafola 20 luglio 2000, la quale dà atto che:

Circumstantiae quoque externae nonnumquam peculiarem influxum in subiecti autodeterminatione exercent, ut v. gr. metus infamiae, timor de parentum salute, metus suicidii, inopinata puellae praegnantia, pressiones ab extrinseco exercitae, aggiungendo però che sensum criticum et decisionalem etiam in praefatis casibus haud facile perturbari posse, si persona perfecta sanitate psychica gaudeat, e che anzi dette circostanze [a]d summum influere possunt augendo in subiecto praeexsistentem deordinationem psychicam vel abnormem personalitatem, minime autem eam instaurare10.

A proposito di quanto sin qui detto, si pone il tema dei difetti della volontà nella formazione del consenso, il che vuol dire concentrare l’attenzione sull’aspetto della libertà del soggetto, che può mancare per una condizione spesso indicata come difetto di libertà interna oppure come incapacità di autodeterminazione. In merito, si possono fare i seguenti cenni.

Dalla prevalente giurisprudenza, il difetto di libertà interna non viene configurato come un capo autonomo di nullità matrimoniale rispetto a quelli tipizzati dal Codice, bensì come uno dei tre possibili contenuti dell’ampio concetto di difetto di discrezione di giudizio oltre alla conoscenza dei conte-

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nuti essenziali del negozio matrimoniale11e alla almeno minimale valutazione critica degli stessi. Come si esprime una sentenza rotale:

Constanter N.F. prudentia figuram praefatae internae libertatis intra lineamenta n. 2 can. 1095 posuit12.

Tuttavia non occorrerà mai scordare la profonda differenza, da un lato, fra una scelta in qualche modo condizionata o influenzata dai vissuti, dalle esperienze vitali, dalle abitudini e, dall’altro, una non scelta che è invece la situazione propria della incapacità. Occorre infatti avere una visione realistica e storica della libertà, che nella sua fisiologia e nel suo esercizio è caratterizzata da limitazioni e condizionamenti, i quali però non la eliminano radicalmente. Come efficacemente si esprime una decisione rotale, la libertà è perfetta solo in Dio; invece libertas hominis est […] libertas vera sed finita13.

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Pertanto solo una condizione davvero anomala potrà privare il soggetto della libertà essenziale, della capacità di essere libero e responsabile delle sue azioni, che alla fin fine è uno dei cardini di una concezione autenticamente personalista del soggetto umano. Altrettanto efficacemente si esprime in merito alla storicità della libertà umana una sentenza rotale:

Ut sane scimus, haud exsistit post peccatum, in illa “dissolutione […] harmoniae” (S. Thomas, Summa Theol., I-II, q. 82°. 1c), absoluta seu pura libertas nisi variis de causis limitata vel vulnerata, unde sermo fieri tantummodo potest et debet de “libertate condicionata seu relativa”, quae autem per haud intermissa conamina incessanter est acquirenda, ita ut libertas nihil aliud sit nisi conatus liberationis14.

Pertanto non ogni influsso affettivo od emotivo sarà idoneo a compromettere in maniera sostanziale quella libertas electionis che corrisponde al versante volontario e deliberativo della discretio iudicii, ma solo quegli influssi che operino nel soggetto una determinatio ad unum15ovverosia che non siano dominabili dalla sua volontà. Come viene indicato in una decisione rotale:

Quamvis in facultatem electivam varii factores psycho-affectivi influxum suum exerceant, sicuti tensiones emotionales, commotiones, impulsus indo-lis obsessivae, inconsistentiae subconsciae, et ita porro, non quaelibet tamen libertatis internae seu electivae coarctatio consensum matrimonialem nullum reddit, sed haec tantum, quae libertatem essentialem, seu capacitatem opera-tionis criticae, reflexivae et ipsius volendi afficit, vel libertatem effectivam, seu eligendi inter possibiles alternativas, graviter laedit16.

In conclusione, anche sotto il profilo della mancanza di libertà interna, la incapacità della persona dovrà essere ritenuta l’eccezione, non la regola. Si intende ancora ribadire che una tendenza per così dire deresponsabilizzante –che mirasse cioè a tendenzialmente equiparare scelte sbagliate o immature (per la mera presenza di condizionamenti e pulsioni interne) e incapacità di scegliere– finirebbe proprio per contraddire una...

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