L'arbitrato societario nell'ordinamento italiano

AutorMarco Cian
CargoProfessore ordinario di Diritto commerciale. Università di Padova
Páginas41-59

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1. La legge delega n 366/2001 e la riforma del 2003

Quando, a cavallo del millennio, si mise mano alla riforma del diritto sostanziale e processuale delle società, l’istituto dell’arbitrato era già piuttosto diffuso nel panorama italiano, ma, per ragioni diverse, ne risultava assai controversa e complessa l’applicazione.

In particolare, l’eventualità, tutt’altro che remota nelle liti societarie, che la controversia coinvolgesse più di due parti (basta pensare alle azioni di responsabilità promosse nei confronti di tutti gli amministratori e dei sindaci, portatori di interessi non necessariamente coincidenti tra loro; oppure alle plurime impugnazioni delle deliberazioni assembleari da parte di soci distinti e invocanti vizi diversi) rendeva difficile lasciar operare le clausole compromissorie, che normalmente prevedevano la nomina di un collegio arbitrale formato da tre arbitri, di cui due indicati da ciascuno dei due litiganti e il terzo di comune accordo o da un soggetto esterno, clausole cioè tipicamente costruite e

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pensate per la risoluzione di controversie a parti contrapposte. Contribuiva inoltre a deprimere il ruolo dell’istituto nell’ambito societario una giurisprudenza estremamente rigida nell’interpretare in questo settore la nozione di transigibilità sul diritto litigioso, da cui dipendeva, secondo la disciplina all’epoca vigente, la compromettibilità in arbitri di una determinata controversia (l’art. 806 c.p.c., nel testo antecedente alla riforma del 2006, subordinava la possibilità di devolvere al giudizio arbitrale una lite, al fatto che essa potesse essere oggetto di transazione)50: prevaleva infatti la tendenza a negare la facoltà dei privati di sottrarsi al giudizio dei tribunali tutte le volte che la controversia toccasse interessi superindividuali, dei terzi o della stessa società, o vertesse attorno alla violazione di norme inderogabili; evenienze che, in questo ambito, si davano in realtà quasi sempre, favorite oltretutto da una valutazione piuttosto generosa da parte della stessa giurisprudenza, con la conseguenza che gli spazi di operatività della giustizia arbitrale rimanevano confinati entro limiti assai angusti.

La legge n. 366 del 3 ottobre 2001, delegando il Governo a riformare il diritto delle società di capitali e cooperative, per assicurarne, tra l’altro, una maggiore competitività nei mercati internazionali, e a regolare le forme del processo ordinario nella materia societaria, al fine di garantire una maggiore efficienza e rapidità delle procedure, consentì allo stesso Governo di «prevedere la possibilità che gli statuti delle società commerciali contengano clausole compromissorie, anche in deroga agli artt. 806 e 808 del codice di procedura civile, per tutte o alcune tra le controversie societarie...».

Avvalendosi della delega, il Governo emanò il d. lgs. n. 5 del 17 gennaio 2003, contenente, negli artt. 34 ss., la disciplina dell’arbitrato societario.

L’art. 34, co. 1, prevede che «gli atti costitutivi delle società... possono, mediante clausole compromissorie, prevedere la devoluzione ad arbitri di alcune ovvero di tutte le controversie insorgenti tra i soci ovvero tra i soci e la società che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale»; la clausola può avere ad oggetto anche «controversie promosse da amministratori, liquidatori e sindaci ovvero nei loro confronti» (co. 4), così come quelle «aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari» (art. 35, co. 5).

Una delle caratteristiche centrali dell’istituto è la necessità (a pena di nullità della clausola) che sia previsto l’affidamento ad un soggetto estraneo alla società del potere

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di nomina di tutti gli arbitri (art. 34, co. 2), escludendosi così la legittimità del mecca-nismo tradizionale e tipico dell’arbitrato di diritto comune, sopra descritto, in forza del quale viene assicurato a ciascuna delle parti in conflitto il diritto di designare un componente «di fiducia» del collegio; si sacrifica in questo modo l’interesse individuale dei litiganti, che per la verità ha sempre rappresentato una delle componenti che, assieme alla garanzia di celerità del procedimento, rende appetibile il ricorso alla giustizia arbitrale rispetto a quella statale, per favorire l’imparzialità dell’organo giudicante e risolvere le difficoltà che, come si è accennato, si delineano spesso in ambito societario, quando la controversia coinvolga o possa coinvolgere più di due parti contrapposte51.

La disciplina dell’arbitrato societario aveva, quando venne introdotta nel 2003, un carattere sotto diversi punti di vista sperimentale, rispetto a quella dell’arbitrato comune, contenuta nel codice di procedura civile (art. 806 ss.). Le diversità erano significative: a) della composizione e della nomina del collegio si è detto; b) si stabilivano norme che facilitavano l’operatività della clausola compromissoria nei riguardi di tutti i soci e degli organi sociali (introducibilità della clausola con decisione a maggioranza, assoggettamento alla medesima anche dei nuovi soci, nonché degli amministratori e dei sindaci, a prescindere dall’espressione per iscritto del loro consenso, come era invece richiesto in generale dall’art. 807 c.p.c.); c) si ricorreva, per definire le controversie compromettibili, ad una formula (l’avere esse ad oggetto «diritti disponibili») diversa da quella cui ricorreva l’art. 806 e sopra ricordata (l’essere la controversia legittimamente transigibile dalle parti); d) si ampliavano i poteri degli arbitri, consentendo loro di conoscere in via incidentale anche di questioni che per legge non avrebbero potuto formare oggetto di arbitrato, favorendo in questo modo l’istituto (art. 35, co. 3, che dichiarava inapplicabile l’art. 819 c.p.c., in forza del quale se, nel corso del procedimento, fosse emersa una questione non compromettibile, gli arbitri avrebbero dovuto sospendere il procedimento stesso, in attesa di una decisione dell’autorità giudiziaria ordinaria sulla questione medesima); e) si ribadiva il divieto per gli arbitri, enunciato nell’art. 818 c.p.c., di concedere provvedimenti cautelari (che devono essere sempre richiesti ai giudici dello Stato), ma con una rilevantissima eccezione, permettendo loro, nei casi di controversie sulla validità di delibere assembleari, di disporre con ordinanza la sospensione cautelare dell’efficacia della delibera stessa (art. 35, co. 5); f) si introducevano altre regole speciali, ad esempio prevedendo con una significativa ampiezza il possibile intervento nel giudizio di terzi e la chiamata in causa di altri soci, diversamente da quanto si riteneva possibile nell’arbitrato comune.

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E’ interessante osservare come, pochi anni dopo, il legislatore abbia riformato l’intera disciplina di quest’ultimo (con il d. lgs. n. 40 del 2 febbraio 2006), generalizzando buona parte delle regole speciali, precedentemente sperimentate in seno all’arbitrato societario52(ad es., oggi sono parzialmente possibili l’intervento e la chiamata in causa di terzi, ex art. 816 quinquies c.p.c.; gli arbitri possono sempre risolvere, sia pure senza efficacia di giudicato, questioni incidentali, rilevanti per la decisione della controversia, anche se di per sé non compromettibili, ex art. 819 c.p.c., nuovo testo; e il limite delle liti arbitrabili non è più quello della relativa transigibilità, bensì, in generale, proprio quello della disponibilità dei diritti su cui vertono, ex art. 806, c.p.c., nuovo testo). Restano peraltro ancora oggi alcuni, non marginali tratti, che continuano a caratterizzare l’arbitrato societario rispetto a quello di diritto comune.

2. I rapporti tra arbitrato di diritto comune e arbitrato ex d lgs. 5/2003 e il problema dell’esclusività di quest’ultimo in ambito societario

Uno degli interrogativi che più hanno afflitto dottrina e giurisprudenza, sin dall’entrata in vigore della disciplina del 2003, ha riguardato proprio i rapporti tra l’arbitrato di diritto comune e quello societario.

Che questo secondo rappresenti un istituto caratterizzato dalla sua specialità, rispetto al primo53, sembra assunto pacificamente accolto; e poiché gli artt. 34 ss. d. lgs. 5/2003 si limitano a regolarne alcuni aspetti, senza peraltro introdurne una disciplina organica ed esaustiva, altrettanto condivisa è l’opinione secondo cui, quando le norme speciali non dispongano, si deve ricorrere alla disciplina codicistica per integrare le lacune54.

Il dilemma si fa invece quasi irresolubile, quando ci si chiede se all’arbitrato speciale vada riconosciuto, nel settore societario, carattere di esclusività o al contrario di alter-

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natività, rispetto a quello di diritto comune. La relazione accompagnatoria del d. lgs. 5/2003 qualifica il nuovo istituto come «una compiuta species arbitrale, che si sviluppa senza pretesa di sostituire il modello codicistico (naturalmente ultrattivo anche in materia societaria)», il che farebbe ipotizzare la perdurante ricorribilità, da parte delle società, anche all’arbitrato comune; sennonché il testo normativo contiene un indicatore di segno diametralmente opposto, là dove, proprio sotto il profilo che maggiormente differenzia i due modelli arbitrali dal punto di vista della posizione dei litiganti (le modalità di nomina degli arbitri), commina la nullità alle clausole che non attribuiscano il potere di designazione ad un soggetto estraneo tanto alla società quanto (si capisce) a...

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