Teoria del diritto e punto di vista interno. Sviluppi e ripensamenti

AutorLa Torre, Massimo
CargoUniversità Magna Graecia di Catanzaro
Páginas141-160

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I

La consapevolezza e la tematizzazione del punto di vista interno è un’acquisizione relativamente recente degli studi giusfilosofici. Nella teoria del diritto, com’è noto, il punto di vista interno è la proposta metodologica avanzata nel libro maggiore di Herbert Hart, Il concetto di diritto. Questa scelta metodologica è ribadita poi nel Poscritto a tale volume, dove si sostiene ancora una volta che il teorico del diritto «deve comprendere ciò che è adottare il punto di vista interno e in questo senso limitato egli deve essere capace di mettersi al posto di un insider» 1.

In questa prospettiva il punto di vista interno ha una duplice articolazione. (a) La prima è tematizzata da Hart come l’aspetto interno delle norme. Si tratta dell’atteggiamento riflessivo che il destinatario o l’usuario di una norma può assumere rispetto a questa. Egli cioè può usarla come ragione per la propria e l’altrui condotta e come fondamento di una pretesa o di una critica. In questo senso la norma è inserita in un contesto di discorso e in una pratica nella quale, per essere efficace, per motivare cioè la condotta in questione, dev’essere riconosciuta come ragione valida. Ciò implica che tale validità possa essere contestata, e infine persino negata. La norma non esprime una regolarità, o una mera convergenza di condotte, né una relazione necessaria tra stati di cose; non è la causa o

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il motivo di una condotta, ne fornisce piuttosto la giustificazione, la ragione, proprio in assenza della cogenza del risultato o dell’effetto cui la norma mira.

(b) il punto di vista interno poi -ed è questa sua seconda dimensione quella propriamente metodologica- è quello della teoria del diritto che per spiegare la pratica e la norma del diritto ripropone e per così dire simula la riflessività del destinatario e dell’usuario del diritto. L’«essenza» del diritto in questa prospettiva rimane la sua pratica, la quale come tale, come pratica, dunque come insieme e pluralità di usi, viene ora resa esplicita dal teorico. Questo deve quindi esercitare una certa astinenza epistemica con riguardo al modo d’operare del destinatario o dell’usuario delle norme giuridiche. Non può sostituire i concetti di questo con delle categorie che gli sono estranee. Semmai potrà procedere in maniera «trascendentale», rintracciando e riconcettualizzando le strutture o -se si vuole- la «mitologia» del discorso e dell’uso giuridico. Ma la categorizzazione di tali strutture e di tale mitologia dev’essere sempre ripresa dalla pratica e presentarsi in modo tale da permettere a questa di riconoscersi nella teoria e di continuare ad essere ciò che è, articolazione di ragioni a favore e di critiche, dunque serie di giustificazioni e di obiezioni, insomma argomentazione e controversia. L’univocità e l’assiomaticità non si prestano a tale compito.

Dal punto di vista interno -come prospettiva metodologia generale- la natura del diritto e la sua struttura devono essere ricostruite e concettualizzate in modo da poter dar conto della controversia e d’assumerla non come patologia della pratica giuridica, bensì come suo tratto definitorio. In particolare, dal punto di vista interno i concetti giuridici -per esempio la nozione di «diritto soggettivo» o quell’altra tanto densa di storia e valori di «costituzione»- non potranno essere svuotati del loro contenuto simbolico-normativo, e isolate dal loro sfondo culturale e valoriale (da ciò che ne costituisce in qualche modo la «precomprensione»), per essere rinchiusi o ritagliati in dispositivi logico-funzionali.

A questo proposito va sottolineato che il diritto si pratica in buona sostanza nella forma di una controversia su diritti contrapposti, la cui rivendicazione implica per ciascuna delle parti la pretesa di essere nel proprio diritto, nel giusto. «a dispetto d’ogni violazione del diritto e d’ogni delusione, ogni conflitto giuridico -ci ricorda Michael stolleis, eminente storico del diritto tedesco- induce le parti coinvolte a dichia-rare la loro posizione ogni volta di nuovo quella "giusta" e i loro avversari ad essere "nel torto"» 2. Ciò è grosso modo quanto alexy ci rappresenta con la tesi della pretesa di giustizia insita nel discorso giuridico 3.

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ciò fa del diritto una pratica controversa ma nello stesso tempo aperta e rivolta (necessariamente) al discorso morale. Questo è ciò che accade nel lato interno del diritto, dal punto di vista interno come aspetto fenomenologico di una pratica secondo norme di diritto. Orbene, una teoria del diritto che di tale aspetto interno si faccia carico non potrà disattivare -a pena di risultare intollerabilmente prescrittiva- la pretesa di giustizia di quella pratica che essa è chiamata a registrare e concettualizzare. La controversia nel lato interno si dà mediante argo-menti e rinvii semantici e simbolici che sono strutturali alla pratica in questione. Tale rete di argomenti e rinvii non può essere neutralizzata o -er così dire- normalizzata mediante stipulazioni convenzionali e assiomatiche, decise dal teorico secondo schemi tutti suoi. La voce e i concetti del teorico -sia pure legittimi- non possono mettere a tacere la voce e i concetti della pratica, se non offrendone un’immagine anodina e fondamentalmente distorta.

Dice stolleis: «Tanto il debole come il forte invocano il diritto. Ciò che questo significa è qualcosa che abbisogna d’essere costantemente ridefinito» 4. Una tale circostanza -che stolleis sembra interpretare come una situazione d’autoconvincimento psicologico e di autoaffermazione ideologica- è letta da ronald dworkin nei termini della sua «tesi dei diritti», la rights thesis 5. «Una pretesa di diritto [a claim of law] [...] è equivalente allora alla pretesa che un principio o un altro [one principle or another] offra una migliore giustificazione di qualche parte della pratica giuridica» 6. Questa tesi può considerarsi come un completamento ed un affinamento della descrizione fenomenologica del lato interno della norma giuridica e della pratica secondo norme di diritto.

Il diritto si usa eminentemente nella controversia su diritti-questo ci dice dworkin. E la loro rivendicazione, la rivendicazione dei diritti, contiene o implica la pretesa d’aver ragione, una pretesa di giustizia. Qui il lato interno delle norme mette in moto un tipo di giustificazione che fuoriesce dal recinto semantico della norma o regola e che si propone nei termini di un diverso tipo di ragione, ancora più controverti-bile e controverso, ma di una dignità normativa più alta della semplice norma. Il lato interno della norma cioè, manifestandosi mediante giustificazioni, obiezioni e critiche ricorre, per sostanziarsi, a riferimenti normativi più forti e universali, e di carattere quindi tendenzialmente morale, i princìpi.

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II

come si è detto, tradizionalmente la teoria del diritto adotta il punto di vista esterno. Ciò è vero, per esempio, per john austin, il quale pone al centro della sua ricostruzione del concetto di diritto l’idea di sanzione considerata «la chiave della scienza giuridica», «the key to the science of jurisprudence» 7. D’altra parte, austin è un fermo sostenitore della definizione per genus et differentiam e non esita ad operare sui concetti giuridici usati dal giurista pratico con un affilato -per così dire- bisturi analitico. Per cui i concetti -come nel caso esemplare del diritto soggettivo- sono sottoposti ad una manipolazione imperativistica e logicistica che ne riduce di molto il campo semantico e la forza normativa e simbolica. Del resto, per austin program-maticamente i concetti usati nella dottrina e nella pratica del diritto non sono altro -nticipando alf ross e il suo «Tû-tû» 8 - che segni riassuntivi di lunghe serie di proposizioni normative, «short marks for long series of propositions» 9.

Va inoltre ricordato a questo proposito uno dei punti sui quali con più energia Hans Kelsen si smarca dall’ «analytical jurisprudence», e questo è la nozione di stato. Quella infatti assunta da austin sembra avere ben poco di giuridico o normativo, giacché dallo studioso britannico lo stato è concepito essenzialmente come un fenomeno materiale, una situazione di potere di fatto. La sovranità giuridica per austin si fonda infine e si manifesta nella capacità tutta fattuale di imporre il proprio comando, accompagnata da un abito di subordinazione in chi lo subisce, individuato nuovamente secondo tratti fondamentalmente materiali o comportamentistici 10.

La teoria di Kelsen però anch’essa non potrebbe -senza perplessità- concepirsi come un contributo offerto dal punto di vista interno, cioè mediante l’assunzione di questo come propria privilegiata pros-pettiva metodologica. Kelsen, pur differenziando tra causalità e imputazione, sembra pensare quest’ultima spesso nei termini di un’attività stipulativa dell’osservatore o del fruitore della norma. Ciò è dovuto all’ambiguità tanto della sua concezione del Rechtssatz, della cosiddetta proposizione giuridica, che sembra talvolta essere al tempo stesso descrizione della norma e pure norma 11, quanto della categoria

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messa in campo di norma come «schema d’interpretazione» (Deutungsschema), là dove tale interpretazione sembra essere quella del teorico o dell’osservatore del fatto che soggiace alla relazione normativa.

Kelsen distingue bene ed accuratamente tra atto e significato dell’atto, da cui solo ha origine la norma 12. Ma egli introduce anche un’altra distinzione, molto plausibile, tra il significato soggettivo e quello oggettivo di un atto. È solo il secondo a darci la norma, non l’ascrizione di senso meramente individuale di un qualche soggetto od organo. Ora però, il significato oggettivo dipende dallo Stufenbau, dal fatto che chi pone in essere l’atto è investito della competenza corrispondente da una norma di gado superiore. Questo sistema gerarchico culmina e si chiude -com’è noto- nella «norma fondamentale», la quale però -ci dice Kelsen- è una presupposizione...

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