Kemal Atatürk, l'autocrate riluttante

AutorMario G. Losano
Cargo del AutorUniversità del Piemonte Orientale
Páginas215-237
1. L’autoritarismo di Kemal Atatürk e i Modelli Europei

Il padre della Turchia moderna e occidentalizzante, Mustafà Kemal Atatürk (1881-1938), non può essere collocato al fianco dei tiranni che devastarono l’Europa nel XX secolo. Anche se la tradizione politica del suo paese e la catastrofe che minacciava di cancellarlo dalla carta geografica lo condussero a esercitare un potere senza dubbio autocratico, fu in certa misura un autocrate riluttante negli anni in cui la tirannia trionfava nella civilissima Europa. Un autocrate, ma non un tiranno: perché il suo non fu «un potere illegittimo e violento»; perché fu più un "principe" sui generis che un "antiprincipe"1.

Le cancellerie europee davano ormai per spacciato il "malato del Bosforo", quando la terapia-urto di Kemal Atatürk gli ridiede una salute ancora malferma e lo accompagnò nei primi passi della convalescenza. Fuor di metafora, quella terapia consisteva in un governo autocratico accompagnato da alcuni germi di democrazia futura, che si svilupparono non senza difficoltà. Né poteva essere altrimenti, poiché cinque secoli di dispotismo teocratico non potevano essere sostituiti da un giorno all’altro con una democrazia di stampo europeo. Fu necessaria la transizione graduale da una "dictadura" a una "dictablanda". Dopo la Seconda guerra mondiale, il ruolo predominante dei militari in una repubblica ancora gracile si trasformò in una dittatura militare nel 1960; inoltre dal 1970 l’Islam -già accantonato dalla repubblica laica kemalista- riprese tanto vigore anche sul piano politico, che l’odierno presidente della Repubblica Turca proviene da un partito islamico. Eppure gli oltre ottant’anni di travagliata evoluzio-

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ne repubblicana della Turchia si orientano, sia pure in misura inevitabilmente decrescente, secondo i principî di Kemal Atatürk esposti nel § 5.

Presto o tardi, quest’eredità che plasma tuttora la Turchia entrerà a far parte del panorama politico dell’Unione Europea, con il peso che deriva alla Turchia dalla sua posizione strategica e dai suoi settanta milioni di abitanti. Quindi la comprensione di questa eredità è oggi qualcosa di più di un problema storico perché essa può forse aiutare a correggere alcuni malintesi ricorrenti nel dibattito sull’ingresso della Turchia nell’Unione Europea.

Anzitutto, l’Impero ottomano dell’Ottocento e la Turchia repubblicana del Novecento hanno sempre visto nell’Europa occidentale il modello cui ispirarsi per ammodernare il proprio Stato. Mi limiterò qui a tentare di illustrare il contesto ideologico in cui si affermò il kemalismo, affidando al lettore il trarne conclusioni per il presente. Poiché si tratta di un’area storiografica rimasta finora confinata agli specialisti, mi limiterò (nel § 2) ad illustrare come la Turchia repubblicana abbia ricevuto dall’Europa occidentale il suo ideale di nazionalismo, sul quale si fondò il potere dei Giovani Turchi dopo il 1908 e quello di Kemal Atatürk dopo il 1923, anno della fondazione della Repubblica Turca. Tuttavia il pensiero nazionalista venne adattato alla situazione di un impero multinazionale in fase di dissoluzione e a un’orgogliosa repubblica che aveva tenuto testa alle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale. Sarà quindi necessario esaminare (nel § 3) le diverse sfaccettature assunte dal nazionalismo turco negli anni del potere dei Giovani Turchi, nel decennio fra il 1908 e il 1918, per passare poi (nel § 4) al nazionalismo che ispirò Kemal Atatürk nella costruzione della repubblica turca nata nel 1923 dalle ceneri dell’Impero ottomano. Sarà così possibile tracciare (nel § 5) un sintetico quadro dell’ideologia di Kemal Atatürk e del peculiare potere autocratico da lui esercitato, per chiedersi infine (nel § 6) che cosa resti oggi del kemalismo.

Mi sia consentita una precisazione. Non ho mai avuto la tendenza a personalizzare le teorie politiche; trattando del peronismo, affermavo: «I fatti possono essere allineati in bell’ordine, ma poi lo storico deve dare un giudizio di valore su quali di essi siano prevalenti nel connotare un regime o un uomo di Stato. Se si sottolineano troppo le differenze nazionali, le peculiarità individuali e il diverso corso degli eventi, risulterà alla fine che solo Perón può dirsi peronista, solo Vargas getulista, solo Mussolini fascista, solo Hitler nazista. Dubito però che questa frammentazione delle categorie politiche possa essere di qualche utilità in uno studio generale»2. Tuttavia per il regime di Kemal Atatürk devo

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fare un’eccezione e affermare che lo vedo come un unicum nel tormentato panorama mondiale degli anni Venti-Trenta.

Non intendo però rifugiarmi nell’affermazione romantico-irrazionale secondo la quale bisognerebbe essere turchi per capire Kemal Atatürk, così come bisognerebbe essere argentini per capire il peronismo e il tango. L’unicità di Kemal Atatürk deriva dall’eccezionalità della storia turca di quegli anni, caratterizzata da un ammodernamento forzato e da un’occidentalizzazione radicale che nella storia trova riscontro, a mio giudizio, soltanto nell’analogo fenomeno vissuto a metà Ottocento dal Giappone dell’epoca Meiji. Però Kemal Atatürk venne a trovarsi alla testa di uno Stato devastato da un decennio di guerra e di crisi economica: la ricostruzione e la modernizzazione della Turchia partiva quindi da una situazione estremamente più precaria di quella del Giappone alla fine dell’epoca Tokugawa.

2. Il nazionalismo europeo e il nazionalismo ottomano

Nei grandi imperi multinazionali dell’Europa ottocentesca l’unità statale si fondava sul richiamo alla religione comune e alla fedeltà dinastica, che per lo più si presentavano unite: il sovrano era tale per volontà di Dio, spesso era incoronato dal Papa, vicario di Dio in terra, ovvero era egli stesso capo della Chiesa, come l’imperatore di Gran Bretagna lo è della Chiesa Anglicana. I Sultani ottomani erano al tempo stesso Calif?, cioè capi religiosi. La caduta degli imperi multinazionali portò alla formazione degli Stati nazionali, i cui elementi unificatori sono la lingua e il fattore geografico ad essa associato, cioè il territorio su cui si parla la stessa lingua.

Tuttavia esistono territori plurilingui, anche come eredità storica degli imperi multinazionali. In altre parole, il fattore geografico non coincide quasi mai punto per punto con il fattore linguistico. L’ideologia nazionalista si propone di eliminare questa dissociazione tra territorio e lingua. Il "nazionalismo" è quindi un movimento politico che mira a unificare in un unico Stato tutti coloro che parlano la stessa lingua. Il suo concetto fondamentale è l’"irredentismo": esso fa sentire come ingiusta a una minoranza l’inclusione in uno Stato, mentre alla maggioranza di un altro Stato fa sentire come "mutilato" il proprio territorio nazionale, se da esso è esclusa una minoranza che parla la stessa lingua.

L’irredentismo può presentarsi in due versioni, una moderata e una radicale. L’irredentismo moderato mira a ottenere migliori condizioni di vita

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o a cancellare le discriminazioni per la minoranza irredenta. L’irredentismo radicale mira invece a ricondurre le minoranze irredente all’interno dello Stato nazionale in cui quella minoranza verrebbe a fondersi con la maggioranza. Però ricondurre gli irredenti all’interno di un unico Stato nazionale significa spesso strapparli, anche con la guerra, ad altri Stati. Perciò il nazionalismo e l’irredentismo sono serviti per giustificare le ultime due guerre mondiali.

Nel secolo XX, per risolvere il problema delle terre irredente, il nazionalismo ha fatto ricorso anche alle teorie razziali. Soprattutto nella Germania nazionalsocialista -mutilata nel territorio e svenata nell’economia dal Trattato di Versailles- la tesi dell’insufficienza del territorio necessario ("spazio vitale", Lebensraum) per la sopravvivenza e l’espansione di una "razza superiore" (Herrenrasse), unita alla presenza di minoranze di quella razza in Stati stranieri, ha portato a teorizzare le guerre di aggressione, sulla base della teoria dei "Grandi Spazi" fondata a sua volta su una particolare concezione della geopolitica. Questa teoria venne fatta propria anche dagli altri due alleati della Germania nazionalsocialista, cioè dal Giappone militarista e dall’Italia fascista3.

Tra il XIX e il XX secolo in ogni nazione fu presente un movimento che predicava l’unificazione di tutti coloro che potevano essere ricondotti a un unico comun denominatore nazionale. Nacquero così il Pangermanismo, il Panslavismo, il Panamericanismo e -per quanto più direttamente riguarda la Turchia- il Panislamismo, che, come dottrina ufficiale dello Stato ottomano almeno da Abdülamid II, era in certa misura in contrasto con il Panturchismo e gli altri movimenti su cui si tornerà tra poco.

Tutti questi movimenti sono accomunati dalla presenza di uno Stato-guida e dalla spinta a ricondurre ad esso le minoranze irredente. In Italia, le irredente Trento e Trieste dovevano far parte dello Stato italiano e, per questo, la Prima guerra mondiale venne interpretata anche come la quarta Guerra d’Indipendenza, che coronava il sogno del Risorgimento. Nella Germania nazionalsocialista si parlava non di conquiste territoriali a danno di Stati sovrani, ma di un "ritorno

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nell’Impero" delle minoranze tedesche che vivevano fuori dai suoi confini, come i tedeschi dei Sudeti che si trovavano in Cecoslovacchia. Dalla fine del XIX secolo esisteva anche un Paneuropeismo, da cui prese in parte origine il movimento politico che, dal 1950, portò alla progressiva (ma non aggressiva) integrazione degli Stati europei.

L’Impero ottomano non era...

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